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(illustrazione: Getty Images)

Se c’è una cosa che i circa 15 mesi di pandemia che abbiamo attraversato hanno puntualmente confermato, è la difficoltà di fare previsioni a medio e lungo termine su come evolverà la situazione epidemiologica, tanto in Italia quanto nel resto del mondo. Con la complicazione, soprattutto negli ultimi mesi, della presenza di diverse varianti del coronavirus Sars-Cov-2, con caratteristiche non omogenee in termini di contagiosità, di letalità e di reattività con le formulazioni vaccinali approvate e in uso.

Al momento la variante virale che si è guadagnata la maggiore attenzione mediatica è quella ora denominata delta, conosciuta in termini prettamente scientifici come B.1.617.2 e contenente come mutazioni principali la E484Q e la L452R, per la prima volta combinate insieme. A livello colloquiale e mediatico c’è chi continua a chiamare la variante indiana (perché in India si è inizialmente diffusa in modo significativo), anche se in realtà sotto quel nome passano sia la variante delta sia la kappa, che inizialmente erano raccontate come una cosa sola.

Negli ultimi giorni, più che per l’India, di variante delta si è parlato per l’Europa e in particolare per il Regno Unito, dato che le statistiche epidemiologiche indicano che è la protagonista della modesta (ma percentualmente significativa) impennata di casi registrati di infezione che c’è stata di recente. Sollevando una certa preoccupazione non solo Oltremanica, ma anche in tutta l’Unione europea. Ma ha davvero senso temere questa variante? Andiamo con ordine.

La variante delta e il Regno Unito, in cifre

Più che le valutazioni in astratto, a dare un’idea della situazione epidemiologica sono anzitutto i dati numerici. Nel corso dell’ultima settimana i casi registrati nel paese sono saliti da una media di circa 3mila al giorno a picchi intorno ai 6mila, dunque con un sostanziale raddoppio nel giro di pochissimo tempo. La maggioranza assoluta di questi nuovi casi, in alcune località fino al 75%, corrisponde a un’infezione da variante delta, che quindi pare essere già diventata la variante dominante anche rispetto alla variante alfa (quella che chiamavamo inglese).



Secondo le statistiche elaborate da Public Health England (Phe), la variante delta avrebbe una capacità di trasmettersi da persona a persona circa del 50% più alta rispetto alla alfa, e complessivamente – a parità delle altre condizioni e fattori di rischio – determina una probabilità di sviluppare una malattia grave e tale da richiedere ricovero ospedaliero più elevata di 2,5 volte. Si parla anche di una sintomatologia tipica che include disturbi gastrici, all’udito e un più alto rischio di trombosi, ma su questi elementi manca ancora una solida base di studi scientifici.

Se questi dati potrebbero determinare un certo allarmismo, e il trend di rapida crescita non fa che accentuare questa più che ragionevole preoccupazione, va però detto che i numeri assoluti al momento sono ancora piuttosto bassi. Complessivamente, nel Regno Unito abbiamo (secondo l’ultima statistica disponibile di questo tipo) 12.383 casi confermati di contagio da variante delta, e il bollettino quotidiano parla di una decina di decessi al giorno e un migliaio di persone attualmente ricoverate. Numeri come già detto ben peggiori della settimana scorsa (in cui si erano toccati anche gli zero decessi), ma comunque infimi rispetto ai picchi delle ondate pandemiche della stagione fredda appena passata, dove si era arrivati anche a 60mila nuovi contagi e 1.500 decessi in un solo giorno. A preoccupare è dunque soprattutto la prospettiva, mentre per ora in termini di gestione dell’emergenza la situazione resta sotto controllo.

Variante delta contro i vaccini

Naturalmente la domanda delle domande – a cui anticipiamo subito che una risposta definitiva non c’è – è quanto la variante delta sia capace di sfuggire all’azione protettiva dei vaccini. Come abbiamo già raccontato qui su Wired, le informazioni in generale sono ancora preliminari (anche perché i vaccini da tenere in considerazione sono molti), e solo per la formulazione di Pfizer e BioNTech abbiamo studi scientifici quantitativi di una certa affidabilità. Per Vaxzevria di AstraZeneca c’è una grossolana stima del 60% di efficacia, e per gli altri vaccini siamo appena alle valutazioni qualitative e aneddotiche.

Due generi di dati sono significativi da raccontare in proposito. Il primo, sul fronte delle notizie non buone, è che la variante delta pare abbattere il numero di anticorpi protettivi generati, di 2-6 volte rispetto alle altre varianti e di 5-8 volte rispetto alla forma iniziale di Sars-Cov-2. Anche se non è chiara quale sia la correlazione tra minore risposta anticorpale e perdita di efficacia del vaccino, si tratta comunque di un elemento di potenziale criticità. Sul fronte delle buone notizie, invece, c’è che nel complesso il ciclo vaccinale completo pare continuare a dare buone garanzie, almeno in termini di protezione dalle forme più gravi di Covid-19. Secondo uno studio condotto dai Centers for Disease Control and Prevention (Cdc) statunitensi, si parla di una protezione anche prossima al 90% per i vaccini a rna messaggero, ma si tratta di stime ancora in evoluzione.

Numeri alla mano, nel Regno Unito degli oltre 12mila casi di contagio confermati hanno avuto bisogno di ricovero ospedaliero 126 pazienti, e 86 di questi erano non vaccinati nemmeno con una dose. Secondo quanto riportato dalle fonti stampa, solo in 3 casi il ricovero ha riguardato persone che avevano già completato il ciclo con le due somministrazioni previste. Ciò significa, anche senza volerne trarre delle conclusioni quantitative definitive, che in generale i vaccini mantengono una certa efficacia protettiva pure nei confronti della variante delta, pur non riuscendo a scongiurare del tutto i casi gravi della malattia.

Attenzione alta per tutti

Secondo gli ultimi dati disponibili, la diffusione della variante delta negli Stati Uniti si stima sia prossima al 6%, anche se si ritiene plausibile che il dato reale sia un po’ più alto. E se davvero restasse confermata la più alta contagiosità rispetto alle altre varianti, è più che plausibile che anche oltreoceano diventi presto quella dominante in termini di circolazione. Al momento, almeno secondo le informazioni di cui disponiamo, la delta pare essersi diffusa soprattutto tra i giovani.

Anche se è improbabile che la conclusione della prima campagna vaccinale possa coincidere con la fine della pandemia, quello che molti esperti in tutto il mondo stanno sostenendo (da ultimo Anthony Fauci negli Stati Uniti) è da un lato la necessità di sveltire quanto più possibile le somministrazioni dei vaccini, sfruttando al massimo il livello di protezione garantito dalle formulazioni approvate. Anche con un’efficacia nel prevenire le forme gravi inferiore al 100%, in ogni caso a livello di popolazione generale l’effetto della copertura vaccinale si fa sentire eccome. Dall’altro lato, si sottolinea l’importanza di continuare a mantenere attive le misure di contenimento e protezione – dalla mascherina all’igiene e al distanziamento – a maggior ragione contro una variante che pare avere una capacità di diffondersi superiore alle altre.

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I dati scientifici ed epidemiologici suggeriscono che la variante delta, già nota come B.1.617.2 o “indiana”, sia al momento quella da tenere più sott’occhio. Restano ancora parecchi elementi di incertezza, ma una copertura vaccinale completa pare comunque fornire buona protezione
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