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Il successo di SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano, la serie Netflix sulla fondazione di San Patrignano e sulla figura di Vincenzo Muccioli, ha spalancato le porte all’interesse di un genere, il documentario, che fino a quel momento veniva, se non snobbato, relegato al circuito ristretto dei cinefili o dei festival, a parte rare eccezioni. Le piattaforme di streaming hanno giocato un ruolo fondamentale nel passaggio del documentario da genere per cinefili – appassionati – addetti ai lavori a genere per tutti, proponendo sezioni dedicate solo ai documentari con titoli quanto mai interessanti.

A parte sparuti episodi precedenti di innamoramento di massa su titoli documentaristici (da Making a Murderer a Wild Wild Country su Osho) e la passione dei fan per i documentari sui loro beniamini musicali (Amy, Lady Gaga: Five Foot Two, Ferro etc), l’anno spartiacque in cui si è assistito allo sdoganamento del genere documentario come accessibile e interessante per tutti è stato forse proprio il famigerato 2020. Lo si deve al successo di titoli apprezzati da critica e di pubblico, come The Social Dilemma di Jeff Orlowski, di cui si è parlato per mesi su tutti i social e media del mondo, o come Mi chiamo Francesco Totti di Alex Infascelli, che ha portato prima in sala poi su piattaforma orde di spettatori per lo più estranei alla frequentazione del genere. E come, soprattutto, la docuserie Netflix SanPa – Luci e tenebre di San Patrignano di Cosima Spender, che ha spopolato anche nel pubblico più generalista e diffidente. E questo va considerato e sottolineato: in pochi, prima di SanPa, avrebbero scommesso su una simile docuserie, ritenendola a priori pesante, eccessivamente “forte”, potenzialmente noiosa. Eppure SanPa ha legittimato una volta per tutte la serie documentaristica anche in Italia, Paese tra l’altro da decenni morbosamente attratto dalle storie true crime, ai plastici, alle ricostruzioni (più o meno) verosimili, alle cronache nere e alle congetture, basti pensare al proliferare di giornali, servizi e (discutibili) programmi al riguardo.

Non stupisce, quindi, il successo ottenuto da Pablo Trincia per il suo Veleno, primo podcast a diventare docuserie per Amazon Prime Video con la regia di Hugo Berkeley. Incentrata sulle vicende dei “I diavoli della Bassa Modenese”, Veleno arriva in un momento propizio: oggi siamo “pronti” alla fruizione di prodotti simili, adeguatamente preparati, invogliati dall’alta qualità a cui gli ci hanno abituati. Anche se, a dirla tutta, c’era da essere preparati molto prima, c’era da far circolare più e meglio i documentari nelle scuole, nelle università, nei cineforum, nei premi cinematografici, senza relegarli – come fanno ancora certi festival e premi anche prestigiosi – a opere di “serie b”, ma dando loro tutta la dignità e l’importanza che meritano. Non dovremmo neanche stare a sottolineare che i documentari sono film, e serie, a tutti gli effetti. Che sono scritti, girati, montati, realizzati con la stessa cura e ricerca di un lungometraggio o una serie di finzione (per non parlare del lavoro maggiore e minuzioso sui materiali di archivio).

C’è da porre maggiore attenzione al riguardo e da valutare al contempo se docuserie lontane dal true crime, da temi di violenza e criminalità, possano essere comunque in grado di catalizzare l’attenzione degli spettatori italiani, come sembra aver già fatto in parte il documentario premiato agli Oscar Il mio amico in fondo al mare (tenera quanto spettacolare storia di un’amicizia negli tra un uomo e un polipo). Per fortuna la produzione non si arresta, anzi i titoli proliferano: tra le nuove uscite, vedremo che tipo di interesse e reazioni susciterà la nuova docuserie Pride, dal 25 giugno su Star all’interno di Disney+, sulla lotta per i diritti civili LGBTQ+ in America dagli anni ‘50 ai Duemila.

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Lontani dai plastici e dalla morbosa narrazione del dolore dei salotti tv, i documentari (serie ma anche film), sdoganati dalle piattaforme di streaming, incontrano finalmente il favore di un pubblico non solo di nicchia
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