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(foto: Spencer Davis on Unsplash)

Una, due, forse tre. E via a continuare, ogni anno. La questione dosi è stata più che mai centrale in tema di vaccini anti-Covid. Da sempre. Tralasciando le questioni tecniche – ricorderete la possibilità di estrarre più dosi dalle fiale di vaccino – il numero di dosi è stato centrale nelle discussioni di strategia ed efficacia vaccinali. A partire dal Regno Unito, con la scelta di vaccinare in massa il più alto numero di persone con una sola dose inizialmente, fino alle evidenze in materia di efficacia contro le varianti (e pare, per esempio, una doppia dose faccia la differenza contro la variante delta (B.1.617.2, un ceppo della variante sequenziata in India).

Così, mentre ormai la campagna anche da noi è in pieno corso, con le ultime aperture, senza distinzioni di fascia di età o categorie, già da qualche tempo si comincia a guardare al prossimo futuro. Si parla in sostanza già di una possibile terza dose (eccezion fatta per Johnson & Johnson, l’unico al momento a prevederne una invece di due), a intendere più generalmente un richiamo vaccinale. Servirà? Ogni anno? La risposta è quanto mai sfumata, ma l’idea praticamente condivisa è che sia possibile e che ci si debba preparare.

Lo sa bene Big Pharma, e da tempo. Solo a gennaio, infatti, poco dopo l’approvazione del suo vaccino, Moderna per esempio annunciava di essere al lavoro con una sperimentazione per capire se una terza dose del suo prodotto, un booster, potesse aumentarne l’efficacia, soprattutto nella lotta all’emergere di nuove varianti. Il nodo varianti infatti, insieme all’interrogativo o sulla durata dell’immunità conferita da infezione naturale e vaccino, sono i temi centrali nelle discussioni sull’utilità o meno di un richiamo, con versioni identiche del vaccino o aggiornate, ovvero mirate a combattere in modo più specifico le varianti. Un vaccino ovvero che utilizza le informazioni genetiche delle varianti per la produzione della proteina spike contro cui indirizzare la risposta immunitaria, facilmente e rapidamente adattabile, soprattutto con la tecnologia dei prodotti a mRna. È quello che ha fatto l’azienda Moderna, lanciando una sperimentazione con un vaccino specifico per la variante beta B.1.351 (scoperta in Sud Africa), che stando ai risultati diffusi solo poche settimane fa riesce nell’intento di potenziare la risposta immunitaria contro le varianti.

L’altro grande enigma di fronte alla necessità di uno (o più) possibili richiami, ha a che fare con la durata dell’immunità acquisita dopo la vaccinazione (e più in generale dopo l’esposizione al coronavirus). Gli studi accumulati finora hanno prodotto dati un po’ diversi tra loro, ma portano a credere che l’immunità acquisita dopo l’infezione, pur con qualche variabile da persona a persona, scemi nel tempo ma duri in generale almeno qualche mese, sei circa anche con i vaccini, forse anni, anche se non è del tutto chiaro che livello di risposta immunitaria necessario a garantire protezione.

La pubblicazione di uno studio recente in materia, che ha osservato la presenza di cellule che producono anticorpi a distanza di quasi un anno dalla guarigione, depone a favore dell’esistenza di un’immunità molto duratura, dovuta alla presenza di cellule a lunga sopravvivenza, capaci di produrre anticorpi contro il coronavirus potenzialmente per tutta la vita. Se questo sia sufficiente però a fornire protezione, di nuovo, non è chiaro.

Ed è per questo che servono studi, e dati. È in questa direzione che va anche l’iniziativa del Regno Unito che ha appena lanciato uno studio per capire se e quanto una terza dose di vaccino anti-Covid (diversi quelli testati) aiuti a potenziare la risposta immunitaria. Combinandone diversi, considerando che il booster, la terza dose potrebbe essere diversa da quelle ricevute in precedenza. Sono però in corso anche tentativi di combinazione con altri vaccini. Pfizer, per esempio, ha appena annunciato l’intenzione di somministrare la terza dose del suo vaccino anti-Covid insieme a quello contro lo pneumococco negli adulti over 65.

Le preparazioni sono in sostanza già in atto, come dovuto, come ha commentato, tra gli altri anche l’esperto statunitense Anthony Fauci interpellato sul tema. Sarebbe “sciocco” non farlo, ha detto, pur considerando il clima di incertezza in cui ci troviamo. A fronte infatti dell’incertezza sulla durata delle risposte immunitarie all’infezione naturale e al vaccino, ci sono anche quelle che riguardano l’evoluzione epidemiologica della pandemia, con la diffusione delle varianti e la loro capacità di evadere o meno i vaccini.

Con diversi ormai approvati, e pur con studi ancora in corso, c’è chi si sbilancia a immaginare il tipo di booster che potremmo ricevere. Per esempio Nathan Bartlett, esperto di infezioni respiratorie della Newcastel Universiy, sulle pagine di The Conversation, spiegava come difficilmente sul lungo termine, se richiesto, la soluzione sarà fare ricorso a vaccini ad adenovirus (come Astrazeneca o anche J&). Non solo per i rari problemi di coagulazione associati ai vaccini, ma perché cicli ripetuti infatti con prodotti ad adenovirus rischiano di diventare sempre meno efficaci, perché il sistema immunitario risponde anche all’adenovirus, interferendo sulla capacità di rilasciare il materiale genetico necessario per montare la risposta contro il coronavirus.

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Probabile, ed è per questo che gli studi nel campo procedono. Ma molto dipenderà dall’evoluzione del virus e della pandemia, oltre che dalla durata della risposta immunitaria
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