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(foto: Ayelt Van Veen/Unsplash)

Il tema non è una novità assoluta, ovviamente, ma pare essersi aggravato in modo molto significativo con l’arrivo della bella stagione e – come è facile intuire – con il periodo delle ferie. Non stiamo parlando solo dei download e dell’uso dell’applicazione Immuni per il contact tracing digitale, che di per sé sarebbe uno strumento valido se usato correttamente e da tutti, ma del più generale sistema di indagine epidemiologica a cui viene sottoposto (tanto in Italia quanto in molti altri paesi) chiunque diventi positivo al coronavirus Sars-Cov-2.

Insomma, l’informazione su chi siano le persone con cui si è stati in contatto stretto nelle ore e nei giorni precedenti è decisiva per il contenimento della circolazione virale, dato che quelle persone potrebbero a loro volta essere positive oppure essere state contagiate (seppure ancora asintomatiche e negative al tampone) dalla persona in questione. Un meccanismo che di base ha sempre avuto una serie di sue intrinseche imperfezioni – tra dimenticanze, contatti stretti non considerati tali, impossibilità di tracciare del tutto focolai molto ampi, e così via – e che ora è ulteriormente indebolito dalle sempre più frequenti e palesi bugie che i medici si sentono raccontare quando svolgono l’indagine epidemiologica.

Sul motivo di queste menzogne, e sul perché il problema stia ora diventando cruciale, non c’è granché da scoprire. Segnalare qualcuno come contatto stretto di un caso positivo significa costringerlo a una quarantena lunga 10 giorni, che nella migliore delle ipotesi porta a bruciare preziose giornate estive, e nella peggiore potrebbe pure compromettere le agognate ferie e la partecipazione agli eventi mondani così tanto attesi. Ancora di più in un momento in cui l’Italia, dopo interminabili mesi di restrizioni, è ancora completamente in zona bianca, ma in cui si percepisce che l’attuale liberi tutti (talvolta persino oltre il consentito) potrebbe non durare a lungo, e dunque ogni occasione perduta viene vissuta con ancora più dispiacere.

E così la ligia e lodevole collaborazione con gli addetti al contact tracing, solo di rado minata nei mesi scorsi da qualche sparuto omertoso, si è trasformata con il passare delle settimane in una sorta di interrogatorio in cui il nuovo positivo cerca in tutti i modi di sottrarsi al confessare la verità, anche a costo di negare l’evidenza. E al posto di quella diffusa paura del contagio che portava a includere nella lista dei contatti anche più persone del dovuto si è affermata la tendenza opposta, in cui il timore è piuttosto quello di fare uno sgarbo a qualche amico o parente.

Tra il ridicolo e il penale

Il fenomeno del “silenzio” da pandemia pare essere trasversale a tutte le regioni italiane, ed è ben rappresentato anche all’estero. Non c’è ovviamente una fascia d’età specifica per questo trend, ma i casi finiti agli onori delle cronache sembrano essere concentrati soprattutto sui più giovani. Minorenni, con la complicità dei genitori che vorrebbero sottrarre i figli dalla gogna degli amici in chat e sui social (fino al punto da arrivare ad addestrarli su cosa dire e cosa omettere), oppure poco più che maggiorenni e ventenni, nella fascia d’età con il maggior numero di contatti stretti, con la minore copertura vaccinale e anche il minore timore del contagio e della malattia.

Così si rincorrono le notizie di fughe, di folli richieste di avvalersi del diritto di restare in silenzio, di tentativi di sottrarsi al tracciamento rendendosi irreperibili e soprattutto di infinite sequele di bugie. Basta dare un’occhiata ai casi documentati da Repubblica nella sola area di Roma per farsene un’idea. Persone che giurano di avere partecipato a feste super affollate senza tuttavia avere incontrato o interagito con altri esseri umani. Amici di una vita che dichiarano di non conoscersi affatto. Potenziali contatti stretti che si allontanano dall’area dove si è sviluppato il focolaio alla notizia della prima positività. Comitive di amici in vacanza insieme, con tanto di foto di gruppo sui social, che affermano di non essersi mai avvicinati gli uni agli altri.

Al di là degli aspetti morali, e delle conseguenze in termini di circolazione del virus che le false dichiarazioni potrebbero determinare, anche dal punto di vista legale non si tratta affatto di innocenti bugie. A più riprese dai Dipartimenti di sanità pubblica negli ultimi giorni sono arrivati messaggi piuttosto duri, a ricordare che chi fornisce informazioni scorrette o è reticente a comunicare tutto quello che sa con una pandemia in corso potrebbe dover rispondere di un reato penale. Infatti, qualora una persona conscia della propria positività decida deliberatamente di non comunicare spostamenti e omettere le proprie frequentazioni, si profila una possibile violazione del codice. A maggior ragione qualora dovesse essere dimostrato che la negligenza ha determinato nella catena del contagio delle conseguenze gravi, come un decesso o un ricovero in terapia intensiva.

Gli anziani sembrano invece essere tendenzialmente più sinceri nelle loro dichiarazioni, almeno da quanto riferiscono gli addetti al tracciamento, impiegati in un’attività che ha sempre meno le caratteristiche di un compito strettamente sanitario e sempre più somiglia a quello dell’investigatore, dello psicologo (per creare un rapporto empatico) e dello scienziato del comportamento.

Se il boicottaggio danneggia soprattutto gli altri

L’effetto di questa dinamica di boicottaggio inizia a farsi sentire anche a livello quantitativo. Lo dimostra, per esempio, il fatto che all’aumento dei casi registrati nelle ultime settimane in Italia non sia corrisposto un aumento delle persone messe in isolamento per contact tracing, ma anzi il numero di persone individuate tramite tracciamento è diminuito ulteriormente.

L’effetto di questo fenomeno, con un numero imprecisato di “furbetti del tracciamento” che circolano senza scrupoli godendo della copertura proprio da parte di chi potrebbe averli contagiati, sarà probabilmente quello di impedire di arginare i nuovi focolai, aumentandone anche la diffusione geografica proprio per effetto dei viaggi estivi. E a pagarne le conseguenze, statistiche alla mano, saranno prevalentemente le persone più anziane, a cominciare da quelle prive di copertura vaccinale.

Il timore, come indicato dagli addetti ai lavori, è che i casi di mancato tracciamento di cui si è a conoscenza siano solo la punta dell’iceberg. Sono noti infatti episodi legati alla visione delle partite della nazionale di calcio davanti ai maxi-schermi, oppure a viaggi di gruppo all’interno (o più spesso all’esterno) dei confini nazionali, o ancora di casi positivi identificati all’interno di hotel, strutture ricettive, locali e ristoranti. Manca all’appello, però, tutto il gigantesco mondo dei ritrovi e delle feste private, quello di cui non resta traccia in alcun registro o elenco, e magari neppure sui social. E se ci sono state persone che hanno continuato a mentire pure di fronte a una fotografia che non lascia spazio a equivoci o a una prenotazione alberghiera condivisa, non è difficile immaginare quale possa essere il tasso di  omissioni quando non c’è alcun elemento che possa guidare o quantomeno insospettire gli addetti al tracciamento.

Eppure in una situazione in cui si vince o si perde tutti insieme, dove ridurre la circolazione virale è un vantaggio per la collettività e di riflesso per ciascuno individualmente, la collaborazione dovrebbe essere uno dei punti cardine. Superando anche il timore di dovere sacrificare una vacanza o di ricevere la reazione seccata di qualche conoscente indicato legittimamente come contatto stretto.

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Si registrano casi di bugie, colpevoli omissioni ed escamotage per sottrarsi alla quarantena. Ma così contenere la variante delta diventa impossibile
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