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Sono passati vent’anni dall’inizio della missione italiana in Afghanistan, con migliaia di soldati inviati a sostegno degli Stati Uniti nell’intervento militare post-11 settembre. L’obiettivo era sconfiggere i talebani e avviare un processo di stabilizzazione e nation building che passasse anche dall’addestramento dell’esercito afghano, così che potesse cavarsela da solo quando le forze occidentali se ne sarebbero andate. Ora è arrivato quel momento, con gli Stati Uniti che per voce del presidente Joe Biden hanno ufficializzato il congedo a settembre e gli alleati che stanno già anticipando il ritiro. Tra questi l’Italia, che proprio nelle scorse ore ha tenuto la cerimonia dell’ammaina-bandiera alla presenza del ministro della Difesa Lorenzo Guerini.

Un mitragliere del 186¡ Reggimento della Folgore durante un controllo per prevenire attacchi da parte dei talebani (Kabul – 2009-06-06, Pier Luigi Alberici)

La missione italiana nel paese è iniziata nell’ottobre 2001 e la base operativa dopo un breve tempo a Kabul è stata trasferita a Herat. Durante questi vent’anni sono passati dall’Afghanistan circa 50mila soldati tricolori, ma mai più di 5mila nello stesso momento. In 53 sono morti. Negli ultimi tempi il contingente aveva già cominciato a sgonfiarsi e in effetti al momento sono 800 circa i militari ancora presenti che nelle settimane a venire lasceranno definitivamente il paese. Fino alla fine del 2020, l’Italia aveva speso oltre 8,4 miliardi di euro per la sua missione in Afghanistan secondo documenti ufficiali, una cifra che in realtà è ben più alta sia per le tante spese indirette che rimangono nascoste sia perché ancora non si hanno i dati aggiornati al 2021.

Un costo altissimo, che ha significato anche la perdita di cittadini italiani e che ha fatto interrogare su quanto tutto ciò sia stato coerente con quell’articolo 11 della Costituzione che dice che “l’Italia ripudia la guerra”, dal momento che è difficile definire l’intervento della Nato in Afghanistan in altro modo. Nel momento in cui si scrivono le ultime pagine di questo libro, mentre i militari si apprestano a lasciare un terreno brullo calpestato per lungo tempo, è allora tempo di bilanci. La domanda è una sola: ne è valsa la pena? La risposta è che ci sono molti dubbi al riguardo.

Soldati del 186 reggimento della Folgore durante una ricognizione a Kabul

Nel 2001 si era andati in Afghanistan per togliere potere e influenza ai talebani, per mettere le basi per una democrazia che sapesse esistere sulle proprie gambe, per securizzare un paese abituato a fare i conti con la violazione dei diritti e il sangue fatto scorrere dal terrorismo. Non ci vuole molto oggi per rendersi conto che tante di quelle cose sono rimaste uguali, se non peggiorate. I talebani inizialmente sono stati cacciati da Kabul, ma nel corso degli anni hanno avuto modo di organizzarsi e assumere il controllo di ampie fette del paese. Quel governo afghano che doveva avere il supporto occidentale ha in realtà perso sempre più territorio negli ultimi anni, restando incagliato in una guerriglia senza sosta con i talebani che è stata solo oscurata dagli accordi siglati l’anno scorso dagli Stati Uniti con questi ultimi, preludio del ritiro delle truppe straniere. Questo non ha però cambiato la situazione sul terreno, che in molti casi continua ad avere le sembianze di una vera e propria guerra civile: proprio mentre l’Italia faceva la sua cerimonia di congedo delle scorse ore, un attentato talebano colpiva un team di sminatori uccidendone almeno una decina.

Aeroporto militare di Ciampino, arrivo delle salme dei militari della Folgore caduti in Afghanistan, 20 settembre 2009

Solo nei primi tre mesi del 2021 sono state uccise oltre 500 persone, con un incremento del 29% rispetto allo stesso periodo del 2020. Segno che l’Afghanistan che l’occidente si appresta a lasciare non è quella terra ripristinata che ci si presupponeva di creare, al contrario è un paese che continua a vivere nel caos. La stessa missione occidentale, Italia compresa, ha d’altronde di frequente cambiato identità e obiettivo, tra guerra al terrorismo, democratizzazione, messa in sicurezza, addestramento e così via, a testimoniare come venti anni di Afghanistan siano stati una sorta di pantano, con progressi più narrati che reali.

Si è continuato a spendere, c’è stato un costo umano importante non solo lato esercito, ma anche lato civili locali, i famosi “effetti collaterali” di una guerra. E il risultato è un paese che difficilmente ce la farà da solo, ma che allo stesso tempo non ha ottenuto molto dal sostegno straniero: una situazione di perdita in ogni caso, in cui esserci o non esserci è comunque una sconfitta, ma dove le ombre più grandi si allungano sull’interventismo a causa degli alti costi umani, economici e sociali che ne sono derivati per l’Italia e per il resto l’occidente.

“C’è da chiedersi cosa sarebbe stato di questo Paese se non fossimo intervenuti”, ha tuonato il ministro Guerini durante l’ultima cerimonia. Un dilemma a cui non possiamo rispondere, l’unica cosa che sappiamo è quel paese oggi non sta molto meglio di venti anni fa.

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Mentre veniva ammainato il tricolore, un attentato talebano uccideva dieci sminatori. La missione aveva lo scopo di sconfiggere il nemico e importare la democrazia ma il ritiro dell’Occidente lascia una terra piena di incognite
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